Recinti di protezione
Sono nata più di 18 anni fa, in un ospedale, circondata da medici che mi hanno seguita in un momento tanto delicato. Quel giorno ho anche ricevuto un nome, e insieme al nome la cittadinanza italiana, il diritto all’istruzione, alla salute e alla giustizia. Tutto questo perché sono nata in Italia e sono cresciuta all’interno di recinti di protezione, come l’obbligo scolastico, l’anagrafe e i diritti dei quali posso avvalermi, che mi tutelano. Se non sto bene c’è chi si occupa di me, se non frequento una scuola c’è chi se ne occupa per risolvere il problema. Non si può negare che questi recinti di protezione proteggano, sono cresciuta nel migliore dei modi, frequentando scuole con ottimi insegnanti, esprimendo liberamente le mie idee e avendo la possibilità di giocare nel periodo più spensierato della vita.
Certo è che non tutti hanno avuto la stessa fortuna, perché queste siepi che mi hanno separata dalla parte buia della vita non crescono in tutti i giardini, lo fanno in modo elitario. Chi nasce in Italia da genitori italiani ha diritto di essere protetto. E gli altri? Chi si occupa dei bambini che arrivano a bordo di barconi stracolmi di gente? Bambini che spesso hanno perso tutto quello che avevano: la casa, i genitori, il proprio nome. Non è la legge a proteggerli, di sicuro. Seppur questa cosa potrebbe giovare ad un’Italia mutilata dal calo demografico, la politica non sembra interessarsene più di tanto. Il calo demografico italiano, cha sta tanto spaventando la popolazione negli ultimi anni, può essere risolto attraverso l’immigrazione. Per rendere possibile ciò bisognerebbe tutelare maggiormente chi arriva nel nostro paese, senza lasciarlo fuori dai recinti di protezione, isolandolo e mostrandolo al popolo come qualcuno di cui bisogna avere paura. Bisognerebbe rendersi conto che chi arriva nel nostro paese è una persona, bisognerebbe ricordarsi del valore di ogni essere umano, sempre e in qualunque circostanza. A nessuno andrebbero negati i diritti fondamentali. Men che meno ai bambini, che hanno tutta una vita davanti a loro. Bambini cinesi, siriani, pakistani, marocchini, che arrivano senza niente e che da adulti prenderanno parte all’economia del nostro Paese, permettendone così lo sviluppo, sono lasciati in balia del destino. Per loro i recinti di protezione sono inesistenti. Se hanno fortuna finiscono in una situazione dove vengono protetti, dove si cerca una prospettiva per il loro futuro. Grazie al lavoro di migliaia di anime buone questi bambini potranno crescere in un ambiente accogliente e forse gli orrori della loro infanzia diventeranno solo un vago ricordo. Se invece la buona sorte non sarà dalla loro parte, diventeranno invece carne da macello, l’ennesima ruota dell’ingranaggio di un meccanismo che non bada ai diritti e al rispetto per l’essere umano. Diventeranno oggetti nelle mani di piccoli uomini, che li inseriranno nel mondo della prostituzione infantile e dello sfruttamento del lavoro minorile.
Solo perché un bambino non è nato in Italia, deve per forza essere questo il suo destino? Dati recenti certificano che sono più di ventimila i ragazzini dei quali vengono perse le tracce, una volta arrivati in Europa. Come osservava Kafka, chi ha il dovere di proteggerci non sempre lo fa: “Ein Schutzmann, der nicht schützt”. Nella traduzione si perde l’importanza del verbo “schützen”, proteggere, che compare anche nella parola “poliziotto”, ma il senso è chiaro: una persona che dovrebbe tutelarci, ma che non lo fa. È stato questo a colpirmi particolarmente, quando Raffaele Crocco ha pronunciato per la prima volta “recinti di protezione”. Questa tutela che diventa discriminazione nei confronti dei più bisognosi. Questa tutela che non protegge l’intera popolazione. È l’ennesimo paradosso di una società che punta sempre più a un benessere individuale piuttosto che collettivo. L’unico modo per combattere questo individualismo e queste distinzioni è promuovere il sentimento di comunità, attraverso l’informazione consapevole e l’educazione ad un pensiero complesso, che non si fermi alle apparenze e che comprenda il valore della diversità. Non dobbiamo aspettare che siano le grandi organizzazioni a mettersi in moto; ognuno, nel proprio piccolo, può contribuire alla creazione di un mondo più giusto.
Cecilia Stenech – 5A
[Immagine: foto di Balades&Randos – licenza CC – https://www.flickr.com/photos/jj-d/36304863055]