interviste

Giorgio continua a combattere

Certo che ho avuto paura! Ma bisogna che la gente sappia…”

Libero Grassi muore il 29 agosto 1991 con un colpo sparatogli alla schiena. La sua battaglia e il suo sacrificio sono stati il punto di partenza di una ribellione maturata nel tempo. Spostiamoci più avanti nel tempo, nel 2004. Alcuni ragazzi palermitani, conclusi gli studi, decidono di aprire una piccola attività, un bar. Iniziano a valutare quanto verrà loro a costare, visto che a quest’età i soldi sicuramente non abbondano. L’addetto ai conti compila una tabella: nell’ultima voce mette un punto di domanda e una cifra. I ragazzi lo interrogano per capire di cosa si tratti e lui risponde che sono i soldi per “mettersi a posto”, perché presto o tardi qualcuno sarebbe arrivato a chiedere il pizzo. I ragazzi si rifiutano categoricamente, non capiscono come potrebbero dividere i loro pochi risparmi con un’organizzazione mafiosa. A qualcuno viene un’idea, la si potrebbe considerare una bravata giovanile, ma è sicuramente qualcosa di più. Stampano degli adesivi con la cornice del lutto e la frase “Un popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Una notte li incollano in giro per la città, alle fermate dell’autobus, sulle vetrine degli esercizi commerciali: tutti li devono vedere. Ed effettivamente così succede. La mattina seguente Palermo si sveglia ferita nell’orgoglio. I giornali non fanno altro che parlarne. Viene addirittura convocato il comitato eccezionale per la sicurezza. I ragazzi restano senza parole. Poco alla volta nasce l’associazione Addiopizzo. Noi studenti in gita in Sicilia abbiamo mangiato e dormito in luoghi certificati da Addiopizzo. A Caccamo, nell’entroterra siculo, abbiamo potuto ascoltare la testimonianza di Giorgio Scimeca, responsabile, assieme ai due fratelli, della pasticceria Fashdance, già vittima di estorsioni, e primo imprenditore della rete di Addiopizzo. Lo abbiamo intervistato per The Rose. 

Giorgio, da dove vogliamo partire?

Direi dalle origini. Da quando i nostri “eroi”, di cui hai parlato nell’introduzione, capiscono che se si vogliono cambiare le cose, a Palermo, si deve partire dai consumatori, che ogni giorno inconsapevolmente con i loro acquisti finanziano la mafia. Viene firmato un manifesto, pubblicato sul Giornale di Sicilia, in cui i firmatari si impegnano ad andare a comprare negli esercizi che pubblicamente dichiarino di non pagare il pizzo. Con questo manifesto in mano, i ragazzi hanno bussato alla porta di ogni esercente, mostrandogli quanti clienti avrebbero potuto acquisire se avessero fatto un passo nella direzione della legalità. Ogni anno Addiopizzo aggiorna la lista di esercizi che hanno deciso di non pagare il pizzo, che si allunga sempre più, e che sono contrassegnati dal loro adesivo. Io non sono che uno di loro”.

Come hai fatto a diventarlo?

“Nel 2005 ho denunciato il mio estorsore, quando ancora nessuno lo faceva. Questo in una cittadina piccola, di 8.000 abitanti, dove tutti si conoscono. Ho deciso di collaborare con la polizia e la persona che mi minacciava è finita in prigione. Fino all’inizio del processo però la situazione continuava ad essere tranquilla. Le cose si sono complicate poi, quando sono stato chiamato a testimoniare. Allora tutto il paese ha scoperto che ero io l’imprenditore che aveva denunciato. Mi chiamavano “infame”, dicevano che avevo mandato in prigione un padre di famiglia e le intimidazioni non si sono fermate. Mio zio era in contatto con la mafia di Caccamo e cercava di farmi ragionare. Anche la mia famiglia si è spaccata”.

E cosa è successo? 

“Tutti noi eravamo al corrente di quello che stava succedendo, grazie agli adesivi di Addiopizzo e ad uno striscione con la stessa scritta appeso anche allo stadio. Mia sorella ha deciso di contattate Addiopizzo tramite mail, e loro hanno risposto. E’ stato davvero un aiuto preziosissimo”.

Poi?

“Anche i ragazzi di Addiopizzo non sapevano bene come comportarsi, erano all’inizio ed io ero la prima persona che chiedeva aiuto. Non per questo si sono scoraggiati. Il problema maggiore in quel momento era l’attività che non funzionava più. Così abbiamo iniziato a organizzare grandi eventi nel locale dove loro invitavano gente soprattutto della città, da Palermo. Il locale si riempiva ogni volta e noi riuscivamo a rimanere a galla. Abbiamo deciso poi di trasformare parte del locale in un laboratorio di pasticceria. Anche questa volta ci sono state complicazioni. I pasticceri che riuscivamo ad assumere lasciavano il posto poco tempo dopo, a causa delle pressioni dei mafiosi, ma questo si è scoperto poi. Uno di loro ha pure iniziato a confezionare dolci avariati per farci chiudere. Per fortuna mia sorella era riuscita ad imparare molto e si è fatta carico della pasticceria da sola”.

Oggi la situazione è cambiata?

“No. Purtroppo da parte della società di Caccamo l’atteggiamento non è cambiato. C’è ancora molta diffidenza. La gente vede i pullman di Addiopizzo che portano ragazzi come voi ad ascoltare la mia storia, ma non sempre capisce”.

Hai mai avuto paura?

“Certo che ho avuto paura, soprattutto quando la gente del paese dove sei cresciuto ti gira le spalle. Poi inizi a conviverci. In più ho imparato che più gente conosce la mia storia e i miei prodotti, più difficile è per la mafia cancellare quello che è successo e screditarmi. Per questo parlo volentieri con giornalisti, frequento spesso le scuole e cerco di esportare i miei prodotti fuori dalla Sicilia. Anche al Nord dovete sapere cosa succede qui. A tal proposito ho girato un documentario con Piff dove racconto tutto alle telecamere. Dopo la messa in onda del programma ho ricevuto moltissimi messaggi di solidarietà e stima da tutt’Italia”.

Margherita Girardi