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Tra la vita e la morte: il reporter di guerra

Apriamo il giornale un mattino, accendiamo la tv, alziamo il volume della radio o scorriamo la bacheca del nostro smartphone: scoppiano rivolte anti-governative in Venezuela e in Iran, i Rohingya fuggono dal Myanmar, Mosul viene liberata dal controllo dell’Isis. Vediamo immagini, video, sentiamo testimonianze, leggiamo articoli. Siamo, per così dire, abituati a sentire notizie di questo carattere, che riguardano sì il nostro paese, ma molto più da vicino nazioni estere in conflitto. Da dove vengono queste informazioni? Chi le raccoglie? Chi le scrive? Chi scatta le fotografie?

Il reportage è, per definizione, il servizio giornalistico di un cronista, corrispondente o inviato speciale. Questo significa che dietro alla narrazione di un conflitto c’è un giornalista, magari su suolo straniero, che fotografa la guerra in prima persona.

Prendendo l’espressione alla lettera, in questo campo forse il più celebre è Robert Capa (1913-1954), fotografo ungherese che ha immortalato le atrocità della Guerra Civile Spagnola (1936-1939), lo sbarco in Sicilia (1943) e quello in Normandia (1944). Come lui molti altri hanno dedicato e sacrificato la propria vita sui fronti più caldi del mondo, per amore della verità, o anche per propaganda, a volte, o per far sapere a chi stava a casa cosa stava succedendo.

Ilaria Alpi era una di questi: era, perché lei a casa non è più tornata. “Che in una guerra muoiano anche i giornalisti è comunque una evidenza statistica”, scrive Mimmo Cándito nel suo libro I reporter di guerra. Storia di un giornalismo difficile da Hemingway a Internet (Milano, 2009). Ma la morte di Ilaria non è stata una morte qualsiasi, un danno collaterale come un altro, tanto che se n’è continuato a parlare, molto, e se parla ancora oggi. Redattrice del Tg3, classe 1961, Ilaria Alpi si è trovata in Somalia un po’ per caso. Per il giornale si occupava d’altro, non aveva esperienza diretta alle spalle la prima volta che mise piede nell’ex colonia italiana. Seguì le nostre truppe nella missione umanitaria Restore Hope delle Nazioni Unite per stabilizzare il paese devastato da una carestia.

Ilaria capì ben presto che l’intento caritatevole era solo una facciata, che copriva ben altri intenti: il traffico internazionale di armi, per esempio, e quello dei rifiuti tossici. Ilaria si spostò poi a Bosaso, dove intervistò uno dei leader della guerra fra bande, ma questo viaggio le costò caro. “Il pericolo maggiore sta dietro all’avvertimento che il commando delle truppe italiane aveva lanciato a tutti i giornalisti”, spiega Mimmo Cándito: si stava preparando una lezione contro l’Italia, da chi provenisse non era chiaro, per vendicare un supposto torto subito e nessuno era al sicuro, né soldati, né giornalisti. Ilaria venne uccisa di ritorno da Bosaso davanti all’ambasciata italiana a Mogadiscio insieme al suo cameraman, Miran Hrovatin. Sembrò più un omicidio su commissione, quasi un’esecuzione, che un incidente. “Cronaca e avventura sfiorano sempre l’itinerario della morte”, scrive sempre Cándito e il caso di Ilaria Alpi non è mai stato chiuso con un colpevole certo.

Domenico Quirico è un altro giornalista di guerra italiano, classe 1951, scrive per La Stampa di Torino. Si è interessato, fra l’altro, agli avvenimenti scoppiati fra il 2010 e il 2011 conosciuti come Primavere arabe. Questo interesse gli è costato due rapimenti: un primo breve in Libia nel 2011, il secondo, più lungo, in Siria nel 2013. E’ stato liberato grazie ad un intervento dello stato italiano. Una volta libero ha girato assieme a Paola Piacenza Ombre dal fondo, un documentario in cui ripercorre la sua prigionia in Siria. Accusato molto spesso di fare un giornalismo “ottocentesco e ormai superato”, fa della sua presenza sul campo un punto di forza, in tempi in cui le guerre sono molto spesso raccontante a chilometri di distanza dal fronte.

Nei suoi scritti ricorre spesso il tema del male, che lo spinge a rincorrerlo e a cercarlo nelle guerre di tutto il mondo. Male che molto spesso è l’unica via per sopravvivere, per non essere vittime a propria volta. “La necessità di raccontarlo è qualcosa di più importante della paura”. E’ molto legato a quella che lui stesso definisce l’obbligatorietà del racconto. “Cosa c’è di più giornalistico, se non raccontare cosa è accaduto, essere lì e sentire le voci delle persone. Non riesco a dimenticare il dolore e coloro che ci si sono immersi dentro”.

Per il giornalista di guerra si pone anche il problema del suo coinvolgimento emotivo: deve rimanere osservatore imparziale dei fatti a tempo pieno, o in determinati casi può interrompere il corso della storia e intervenire? Su questo Peter Arnett, voce predominante della Guerra del Vietnam (1955-1975) e del Golfo (1990-1991), ha una posizione irremovibile. In un episodio particolare della sua carriera ricorda un monaco buddhista che per protesta si diede fuoco davanti alla sua macchina fotografica. Avrebbe potuto evitare l’immolazione: “come essere umano- confida- lo volevo, come reporter non potevo. Se avessi cercato di intervenire sarei stato coinvolto direttamente nelle vicende politiche vietnamite. Il mio ruolo di reporter ne sarebbe uscito distrutto, assieme alla mia credibilità”.

Altri protagonisti del giornalismo di guerra italiano sono il trio Fausto Biloslavo, Almerigo Grilz e Gian Micalessin. Insieme hanno fondato l’agenzia di informazione Albatross Press Agency, dedicata a reportage in aree di conflitto.

Almerigo Grilz morì a 34 anni in prima linea in Mozambico, ucciso con la cinepresa in mano da un proiettile vagante mentre filmava uno scontro cruento fra miliziani. Attivissimo frequentatore di zone di conflitto, è stato sui fronti più caldi del mondo, come del resto i suoi due colleghi. Fausto Biloslavo, dal canto suo, a 21 anni fu l’unico a fotografare Yasser Arafat, figura chiave della causa palestinese, in fuga da Beirut. Nell’ ’87 a 26 anni venne rapito e tenuto prigioniero a Kabul per 7 mesi e venne poi liberato grazie all’intervento dello Stato italiano. Nel 2001 è uno dei primi ad entrare a Kabul liberata ed è stato l’ultimo giornalista italiano ad intervistare Gheddafi nel 2011. Ha realizzato, fra gli altri, il libro fotografico Gli occhi della guerra, dove sono raccolti i conflitti di cui è stato testimone dagli anni ’80 ad oggi. Allo stesso modo Gian Micalessin ha seguito più di 40 conflitti, operativo dal 1983, ha scritto per testate giornalistiche nazionali e internazionali.

Biloslavo e Micalessin collaborano con Gli Occhi della Guerra, primo progetto crowfunding di giornalismo al mondo che finanzia i propri reportage grazie ai suoi stessi lettori. E’ nato nel 2013 con il proposito di “fare giornalismo senza censure né filtri”. Fra le nuove leve del giornalismo di guerra c’è Matteo Carnieletto, 28enne di Cantú, al momento concentrato nell’approfondire il conflitto arabo-palestinese e le figure di Vladimir Putin, Bashar al-Assad e Michel Aoun.

Citando Gli Occhi della Guerra non si può far a meno di discutere il fenomeno delle fake news in guerra. In un articolo di alcuni giorni fa la testata denunciava il punto di vista distorto che molte agenzie d’informazione occidentali avevano proposto rispetto alla crisi siriana, basando le loro considerazioni sui dati di un fantomatico osservatorio composto da una sola persona, residente a Coventry, in Inghilterra, aperto oppositore di Assad quando si trovava in Siria. Forse non una delle fonti più imparziali in un conflitto. Nell’articolo non si discuteva se fosse giusto o meno schierarsi con o contro il governo di Damasco, ma al contrario si sottolineava la necessità di una lettura, per quanto possibile, priva di filtri e parzialità della realtà dei conflitti. “Conta molto il fatto – scriveva nell’articolo il giornalista – che gran parte dei media abbiano raccontato l’atroce guerra civile siriana con un preconcetto che non poteva non distorcere la realtà. Poiché il cattivo era Assad, tutto ciò che andava contro Assad era buono. E se non era buono, comunque serviva alla causa”.

Il giornalista sottolineava una ad una le crepe nel sistema: la liberazione di Mosul, dal 2014 roccaforte dell’Isis, raccontata come “una missione di gloria, una bomba intelligente qua, un incursione chirurgica là”. Le notizie anche in questo caso non erano complete. Se gli alti comandi militari USA parlavano di 1.000 civili morti, l’Associate Press ne contava 11 mila e la Commissione d’inchiesta del Governo iracheno 23 mila, con oltre 70 mila feriti.

Il punto – continuava il giornalista – non è e non è mai stato decidere se il presidente siriano sia un benefattore dell’umanità o un aguzzino. Quello che non si doveva fare, ed è invece stato fatto, era decidere che chi non era dalla parte dei “ribelli” era un collaborazionista, un complice. Milioni di uomini e donne, sono stati trasformati in mostri perché non la pensavano come opinion makers e giornalisti che nella maggior parte dei casi non sapevano nulla della Siria e men che meno si sognavano di metterci piede”. E il giornalista concludeva con una provocazione: “chi ci sputava addosso queste accuse non si faceva mai il problema di essere, per il suo stesso modo di ragionare, un amico dell’Isis”.

Ad ogni modo le manipolazioni della verità in guerra ci sono e ci sono sempre state. Spesso si tende ad additare la rete come la causa di ogni male, ma c’è da considerare invece che sul web esiste, accanto a tanta “spazzatura”, un giornalismo alternativo, spesso molto serio. Il problema della guerra è che la verità non è scientificamente comprensibile, in guerra “tutto è lecito”. La linea di demarcazione fra giusto e sbagliato può essere sottile, sfumata, e ci sono spesso troppi interessi politici ed economici in ballo. Una lotta fra morale ed egoismi. E questo discorso si perde nelle campagne militari del passato e del presente.

La Guerra del Golfo? Saddam Hussein, dittatore irakeno, veniva dipinto dal governo Usa come il condottiero del quarto esercito del mondo, pronto e disposto ad utilizzare armi batteriologiche e di distruzione di massa. Scene del film Top gun, spacciate per verità, illuminavano gli schermi di milioni di persone suggestionandole. Bisognava convincere, prima gli Stati Uniti, e poi il mondo, che quella guerra era necessaria.

Poco differente la II Guerra d’Iraq: l’allora segretario di stato Colin Powell si presentò alle Nazioni Unite con una fiala di antrace, arma potenzialmente in possesso dell’Iraq in quantità tali da giustificare un tempestivo intervento statunitense, alimentato dalla psicosi della guerra batteriologica indotta dai media. E la storia non finisce qui: nel 2013 Obama ci ha provato di nuovo, accusando Assad di essere in possesso di armi chimiche, che non sono ancora state trovate.

Il reporter e l’informazione vengono spesso usati come armi a loro volta, ed oggigiorno sono forse più importanti di quelle tradizionali. I media muovono l’opinione pubblica e la influenzano a piacimento. “In questo caso– riferiva Eli Fastmen dai fronti delle Guerre Jugoslave – bisogna stare attenti a come si presenta la notizia. Noi riferiamo le fonti serbe senza interventi di commento, specificando che questa è la versione fornita dal governo. Ma non è quello che accade realmente”.

In guerra, la prima vittima è spesso la verità, e chi cerca di indagare non è mai completamente al sicuro.