Fast Fashion: la moda che ci omologa, che non rispetta i diritti umani e che male all’ambiente
Quante volte ci siamo chiesti come faccia quella T-shirt a costare solo 6 euro, per poi acquistarla lo stesso, perché appunto costa SOLO 6 euro?
L’industria della moda è la seconda tra le più inquinanti del mondo, nonché ai primi posti per quanto riguarda il consumo energetico e di risorse naturali. Le tendenze si rinnovano di continuo, e per stare al passo con la moda, anche i nostri armadi sono costretti a farlo. Il “fast fashion” risponde infatti a questa logica: assecondare la moda con capi sempre nuovi. Come si può dedurre dal nome, il “fast fashion” è una moda veloce, usa e getta, di basso costo, che offre capi di scarsa qualità destinati ad essere indossati solo per una stagione e poi buttati. Dal vocabolario Treccani: “moda svelta: tendenza della moda a produrre capi di abbigliamento piacevoli, che rispondono ai canoni in voga e hanno un prezzo contenuto”. Se una trentina di anni fa, dati i costi, l’acquisto di capi d’abbigliamento andava programmato, negli anni ‘90 lo shopping è diventato molto più economico, rendendo l’acquisto molto meno impegnativo e meditato. Il “fast fashion” vero e proprio nasce negli anni ‘80 e raggiunge la massima fioritura dagli anni 2000, anche grazie all’avvento di internet e dell’e-commerce.
La casa pioniera di questa “rivoluzione” è Zara, accompagnata da altri marchi molto famosi come H&M, Mango, Bershka, Topshop, Primark, Benetton, Gap e così via. Se fino ad ora nel mondo della moda esistevano due collezioni all’anno, autunno/inverno e primavera/estate, ora esse si rinnovano ogni 10-15 giorni, prendendo ispirazione dalle passerelle dei grandi marchi “haute couture”. Il “fast fashion” permette dunque di acquistare capi a un prezzo decisamente più accessibile, senza rinunciare alle tendenze di stagione. Una “democratizzazione” della moda, se così la si vuole chiamare. Ma, dietro a questi vestiti comprati a poco prezzo, si nasconde lo sfruttamento di lavoratori in paesi poveri, unito a un enorme danno ambientale. Lavoratori sottopagati, assenza di norme di sicurezza, materiali scadenti e sistemi di lavorazione altamente inquinanti, a partire dalle tinture, altamente cancerogene per l’uomo, fino ai materiali dei tessuti, per la maggior parte poliestere o altri polimeri derivati dal petrolio. Materie prime, dunque, inquinanti e non riciclabili, le quali, a contatto con il nostro corpo e con i numerosi lavaggi, rilasciano particelle tossiche per l’uomo e contaminanti per mari e oceani.
E se passiamo poi allo sfruttamento della forza lavoro, si nota che i ritmi di produzione delle aziende di abbigliamento reggono la concorrenza solo producendo in paesi dove il costo del lavoro è molto basso, dove è quindi condizione normale che i diritti dei lavoratori non siano rispettati. Nei paesi poveri quali Bangladesh, India, Cambogia, Pakistan e Cina, i lavoratori vengono sfruttati e tenuti in condizioni di lavoro estreme. Solo nel 2013 la reale condizione di produzione dei nostri vestiti cominciò ad essere conosciuta pubblicamente. In Bangladesh avvenne un incidente: una palazzina di otto piani contenente 5 fabbriche tessili di abbigliamento di grandi marche crollò, vittime 1000 dipendenti e feriti 2500. L’episodio, conosciuto come l’incidente di Rana Plaza, contribuì ad aprire gli occhi di molte persone sulla questione dell’industria della moda.
Eppure, ad oggi, il problema esiste ancora. Buttare via una maglietta comperata a pochi euro, dopo averla messa solo un paio di volte, non ci crea alcun senso di colpa. Ci siamo abituati a considerare di scarso valore l’abbigliamento in generale, perché ci siamo abituati a pagarlo poco. Ma dovremmo soffermarci di più sul VERO costo della moda. Siamo schiavi di una strategia di marketing che ci vuole rendere dipendenti dallo shopping. Lo shopping ci regala un momento di esaltazione, che finisce, però, in breve tempo. Ed è così che i consumi aumentano in modo esponenziale. Secondo alcuni studi, da 62 milioni di tonnellate di consumo nel 2019 si giungerà a 102 milioni di tonnellate nel 2030.
Attualmente nel mondo vengono prodotti tra gli 80 e i 100 miliardi di capi di abbigliamento all’anno. I negozi si riempiono di novità ogni due settimane circa e l’invenduto viene ritirato. I clienti sono attratti da questa continua e sempre rinnovata offerta: il consumismo instilla l’illusione di essere ricchi. È proprio su questa illusione che si basa quella strategia di marketing che spinge il cliente a comprare continuamente nuovi capi. Il comportamento diventa compulsivo, non determinato, non più controllabile. Greenpeace sostiene che di anno in anno il consumo nel settore moda aumenta del 60%, ma la durata media di un capo è scesa del 50% rispetto a 15 anni fa.
Ogni secondo l’equivalente di un camion di spazzatura di vestiti viene buttato in discarica. Un ulteriore problema è costituito dal fatto che il “fast fashion” è spesso talmente veloce da rendere impossibile la produzione attraverso le filiere già esistenti. Dopo aver visto un tale “influencer” indossare un certo capo, la richiesta è talmente pressante che, in Italia e in altri Paesi occidentali, sorgono in breve tempo distretti di produzione in cui gli operai, per la maggior parte stranieri, lavorano sottopagati e in condizioni estremamente logoranti. Ma cosa si può fare dunque per ridurre questo problema, a cosa dobbiamo fare attenzione per far sì che il cambiamento di cui necessitiamo parta proprio da noi e dal nostro armadio?
Ecco le dieci regole da seguire per diventare consumatori consapevoli:
- Acquistare di meno
- Controllare sempre il materiale con cui i capi sono prodotti
- Verificare il luogo di produzione
- Pagare di più, per abbigliamento di qualità maggiore che durerà di più nel tempo e potrà essere riutilizzato numerose volte
- Acquistare usato o vintage (e rivendere o scambiare i propri capi inutilizzati)
- Ricreare con un po’ di creatività partendo dai capi che si hanno già
- Acquistare da aziende etiche, che pongono particolare attenzione ai processi di produzione: dalla raccolta delle materie prime alla produzione alla distribuzione
- Creare i propri capi da sé
- Fare ordine nel proprio armadio
- C’è bisogno di ripeterlo? Acquistare di meno!!!
Federica Parolini – 5A
[Immagine: foto di Simone Cacciatore – “Business Fashion” by BarbieFantasies is licensed under CC BY 2.0]